Peak Experiences

Ogni anno migliaia di libri e manuali invadono il mercato portando con sé insegnamenti, perle di saggezza, protocolli, sistemi di cura e in genere consigli per il recupero, il miglioramento e il mantenimento della salute. Naturalmente, nella stragrande maggioranza essi sono di fatto completamente inutili, e, quando non lo sono, portano a benefici lievi, provvisori e transitori.

Perché è così difficile essere felici, se, in fondo dedichiamo tutta la nostra vita a questo obiettivo e se da sempre l'umanità ha ricercato le modalità e gli strumenti per poter essere felice? Per rispondere a questi interrogativi, in modo da permettere, se non di trovare la felicità, almeno di comprendere quali sono gli ostacoli ad essa che è possibile rimuovere, e quali siano, in pratica, le esperienze di vita che la rendono degna di essere vissuta.

Nello studio della psicobiologia, Mihaly Csikszentmihalyi e Abraham Maslow hanno dedicato gran parte delle loro ricerche e delle loro riflessioni allo studio della ricerca della felicità, il primo analizzandone gli aspetti legati alle specifiche attività umane che garantiscono di vivere “esperienze ottimali”, il secondo dedicandosi allo studio dei bisogni fondamentali degli esseri umani attraverso l’elaborazione di un insieme di principi e di regole pratiche che possono condurre a migliorare la qualità della vita umana in maniera attiva e propositiva, in vista della costruzione di un ambiente più favorevole al benessere e alla felicità.

Bisogna capire come indirizzare la propria vita verso esperienze piene, intense, consapevoli, le quali vadano nella direzione della autorealizzazione, e non della pura e semplice sopravvivenza.

L'idea che la psicobiologia propone è che la felicità non dipende da eventi esterni, ma piuttosto da come li interpretiamo. Tutti ci rendiamo conto che, nonostante il possesso di beni materiali o immateriali e situazioni che dovrebbero fornirci dall’esterno la felicità, quello che manca, a ben guardare, è il collegamento con noi stessi. Le condizioni che dovrebbero darci la felicità sono infatti condizioni standard: salute, ricchezza, assenza di problemi lavorativi e di ansia per il futuro, benessere economico a seconda delle esigenze di ognuno, ecc., tutti fattori che di per sé non significano nulla se non li si rapporta alla personalità di ciascuno, alla sua esperienza e alle sue aspettative.

La felicità, insomma, è una condizione che va perseguita con impegno e determinazione, coltivata e difesa privatamente da ciascuno, purché si sia perfettamente consapevoli del fatto che essa è una condizione assolutamente transitoria e di brevissima durata.

La ricerca della felicità presuppone l’ambiente idoneo ad accoglierla, ma non è il solo controllo sull’ambiente, il contesto, la predisposizione che garantisce la felicità, perché esso è regolato da troppi fattori sui quali non abbiamo controllo. Una volta che abbiamo costruito e organizzato le condizioni per cui, secondo noi, dovremmo essere felici, non esiste nessuna garanzia che esse restino immutate a nostra disposizione. Anzi, a meno che non pretendiamo di essere onnipotenti e di poter frenare l’entropia con la sola speranza di farcela, è molto più probabile che le condizioni che abbiamo faticosamente creato vengano a mancare.

La felicità non è neppure uno stato interno che una volta inserito come un software produce gli effetti per cui è stato costruito. Come ogni stato interno esso è soggetto agli stimoli esterni, ed è per questo che va difeso e coltivato, perché richiede un continuo adattamento. Questo adattamento è ciò che viene da noi, dalla nostra capacità di accettare il cambiamento, ma anche quella di controllarlo in modo che esso sia sempre quel cambiamento che garantisce in ogni situazione la massima soddisfazione e intensità dell’esperienza.

Le persone che sono in grado di controllare la loro esperienza interna di relazione con l’ambiente saranno in grado di determinare la qualità della loro vita. Il che è quanto di più vicino all’esperienza della felicità che la vita stessa ci permette di sperimentare.

Tutta la letteratura scientifica, oggi, è sostanzialmente concorde che le persone che si giudicano più soddisfatte della loro vita, se non più felici, sono quelle che hanno raggiunto la consapevolezza del fatto che la vita deve essere vissuta alla ricerca di questa armonia interna, non di una condizione di felicità esterna: essi conducono vite intense e piene di forza e di energia, sono aperti a una grande varietà di esperienze, continuano a imparare, a studiare, a voler conoscere con curiosità fino all’ultimo giorno di vita, ma non fanno tutto questo da soli, anzi, hanno stretti e forti legami con gli altri e con l’ambiente in cui vivono, impegnandosi in essi.

Paradossalmente, e in maniera completamente diversa da come la felicità o la via per essa è dipinta nella filosofia e nelle religioni orientali, una condizione che si avvicini il più possibile alla felicità non è mai legata alla stasi, alla meditazione o alla semplice contemplazione, al “lasciar fluire l’esistenza” limitandosi ad osservarla. Anzi, l’esperienza insegna che le persone che si considerano, se non più felici, perlomeno più soddisfatte della loro vita, sono quelle che vivono un’esistenza piena, ricca di imprevisti, di novità, di impegni, ma che hanno tutte la percezione di poter in qualche modo dominare la propria relazione con l’ambiente, guidarla e incanalarla, anziché essere trascinati dal flusso in maniera sostanzialmente passiva.

In altri termini, una vita felice è, paradossalmente, una vita piena di guai, ma nella quale questi guai vengono intenzionalmente e attivamente ricercati tra quelli che costituiscono il "pedaggio" che la vita richiede per poter accedere a livelli sempre più intensi ed elevati di esistenza.

Non ha quindi nulla a che fare con lo scorrere del fiume sulle cui acque prima o poi passerà il cadavere del nemico del saggio orientale, ma con una condizione di vita piena, consapevole, difficile ed impegnativa.

Forse è ancora più paradossale constatare come una delle caratteristiche più sorprendenti che è stata riscontrata tra coloro che dichiarano di vivere una vita piena e intensa, è che essi stanno bene e vivono con soddisfazione qualunque sia l’attività che li impegna, anche se noiosa o difficile; anzi, non sono mai annoiati e riescono a trasformare in occasione di crescita (quasi) tutto quello che capita loro.

Se gli ostacoli e i problemi della vita, entro certi limiti, ovviamente, sono visti spontaneamente come sfide anziché come fattori di stress negativo, allora anche gli imprevisti e gli eventi spiacevoli possono diventare fonte di arricchimento e persino di soddisfazione personale. Uno dei principi di base è quello che “causa dell’infelicità” è sicuramente il pretendere che le cose vadano come noi vogliamo che vadano. Ciò non significa che non si debba cercare con tutte le proprie forze di conseguire i propri obiettivi nella maniera che si ritiene più corretta, ma solo che occorre sempre mettersi nell’ordine di idee che nulla ci è garantito e nulla ci è dovuto.

Siate preparati

È importante perseguire i propri obiettivi con tutte le nostre energie, ma è altrettanto importante essere pronti a cambiare direzione nel momento in cui ci rendiamo conto che la vita ci impedisce di proseguire nella direzione che noi volevamo. È questa consapevolezza, la conoscenza e l’accettazione dei propri limiti, la capacità di leggere i segnali che la vita ci invia informandoci che è ora di cambiare direzione, e adeguarsi a questa imposizione costruendo, però, immediatamente dopo, un nuovo programma che sia il più possibile conforme ai nostri desideri e alle nostre aspettative.

Tutto quello che vogliamo ce lo dobbiamo conquistare, ma senza nessuna garanzia che i nostri sforzi siano necessariamente premiati secondo le nostre aspettative. Allora, ecco che l’attenzione si sposta dall’obiettivo al processo che consapevolmente si mette in atto per il suo conseguimento. E‘ quest’ultimo ciò che si deve ricercare, più che l’obiettivo stesso. Ma poiché ciò che desideriamo richiede normalmente sforzo, impegno, fatica e sacrificio, diventa difficile accettare l’idea che siano proprio questi i fattori che dobbiamo ricercare per essere felici.

La sofferenza

L’attuale società del finto benessere ci ha abituati a pensare che esista un rimedio per qualunque male. In effetti, i progressi scientifici e tecnologici ci consentono di risolvere problemi che erano assolutamente irrisolvibili e causa di conseguenze drammatiche, anche solo pochi decenni fa.

Ciò che non è mai cambiato, invece, da quando esiste la vita sul nostro pianeta, è il principio secondo cui qualsiasi cosa valga la pena fare e ottenere richiede sforzo, impegno e sacrificio. L’illusione che la scienza possa fornirci benessere e serenità in maniera assolutamente gratuita e senza la nostra partecipazione attiva è forse il male principale che affligge la civiltà occidentale.

Questo male può essere identificato nella idea ingannevole e illusoria che esista sempre qualcuno o qualcosa, all’esterno di noi, che possa risolvere i nostri problemi: di salute, di lavoro, di studio, sentimentali, relazionali, e così via.

Questo male è evidente, per esempio, nel nostro legittimo quanto infantile desiderio di trovare presto la cura definitiva di tutte le malattie, la fiducia incondizionata nella ricerca medica in campo genetico (la quale dovrebbe renderci presto tutti perfettamente sani e praticamente immortali), la possibilità da parte dell'umanità di controllare l'ambiente e sfruttarlo a proprio piacimento, o quella di rifugiarsi passivamente nell'abbraccio della farmacologia psichiatrica o di quella “alternativa”, in grado di darci serenità tramite l'assunzione di una pastiglia o di poche gocce, oppure ricevendo periodicamente una benefica irrorazione di amore universale tramite appositi rituali.

Manca, in altre parole, e viene sempre più drammaticamente a mancare, l’abitudine alla fatica. Condizionati dal fatto che la maggior parte dei lavori che asservivano in maniera brutale tutta l’umanità, fino anche solo un secolo fa, sono ora svolti da macchine o con l’aiuto di esse, ci siamo illusi che la tecnologia e la scienza possano aiutarci in tutti gli aspetti della vita.

In realtà, quando si tratta della autorealizzazione, essa, per sua stessa definizione, può venire soltanto dall’impegno individuale. Qualunque sia il problema che lamentiamo, sia esso di tipo medico, come una condizione precaria di salute, sia esso di qualsiasi altro tipo, come la disoccupazione lavorativa, siamo tutti portati a ritenere che qualcun altro dovrà aiutarci a risolverlo. Alcuni di noi ne sono talmente convinti da considerare inutile, se non controproducente, o persino inconcepibile, il fatto di attivarsi per risolvere da soli il problema. Tutto sembra talmente complicato che ci illudiamo che soltanto esperti e specialisti possano mettere le mani su ogni problema della nostra vita.

Sono solo casi eccezionali quelli di persone che ritengono di risolvere il loro problema di salute, per esempio di sovrappeso, imponendosi di mangiare meno e di muoversi di più. La quasi totalità di queste persone, che sono ormai praticamente la maggioranza della popolazione, ritengono che una pastiglia, un medico di provenienza orientale, una nuova dieta debbano necessariamente risolvere i loro problemi. “Non dipende da me” è l'alibi attraverso il quale si cerca di giustificare sempre il ricorso ad aiuti esterni e mai alle proprie risorse.

Nonni e bisnonni di molti di noi sono emigrati dal loro piccolo paese natale, senza soldi e senza conoscere una lingua straniera, e hanno attraversato l’oceano in nave per andare a cercare fortuna altrove, affidandosi anche, questo sì, all'aiuto e alla solidarietà di coloro che si trovavano nella stessa situazione ma specialmente confidando sulle proprie risorse individuali, sulla propria forza, determinazione, volontà di combattere per costruirsi un futuro migliore. Non erano supereroi, ma persone che hanno agito in questo modo positivo e propositivo perché l'ambiente nel quale sono vissuti ha permesso o favorito questo tipo di atteggiamento costruttivo.

Oggi, in un’epoca in cui tutti i giovani conoscono una lingua straniera e i trasporti intercontinentali non sono più viaggi avventurosi e pericolosi, è una esigua minoranza quella costituita da coloro che prende in considerazione l’idea di risolvere il problema della disoccupazione andando a qualificarsi o a lavorare dall’altra parte del mondo. Tutti sono sempre pronti a magnificare i benefici della globalizzazione, del fatto che le distanze non sono più un problema, che conoscere ambienti e culture diverse è sempre una occasione privilegiata di crescita, ma quando si tratta di fare la fatica che costa lo staccarsi da legami infantili, tutti diventano immediatamente patriottici e reclamano il loro diritto a vivere a lavorare dove sono nati.

Dall’altra parte, chi lavora e magari contemporaneamente studia per migliorare la propria posizione professionale e sociale, chi sottrae una parte del proprio tempo allo svago e al riposo per svolgere un’attività fisica che lo mantiene in buona salute senza farmaci e cure mediche, chi si impegna quotidianamente, senza averne alcun riscontro immediato e automatico, per cercare di migliorare in qualunque modo la propria condizione di vita, viene visto come un individuo eccezionale, un po’ bizzarro, atipico, e che probabilmente necessiterebbe di cure psicologiche o psichiatriche intensive.

Normalmente, le persone si rifugiano nelle loro piccole schiavitù e rituali quotidiani, esattamente come i criceti che corrono sulla ruota nella loro gabbia. Essi dichiarano di essere impossibilitati a fare alcunché, dal momento che hanno una famiglia, un lavoro, una casa a cui badare, spesso anche un gatto o un cane, devono andare a fare la spesa, devono preparare da mangiare, e sono comunque sempre troppo stanchi per fare qualsiasi altra cosa. Nessun cambiamento alle loro abitudini quotidiane è neppure vagamente concepibile.

Il suggerimento di sostituire il pranzo quotidiano con una passeggiata diventa una assurdità e un attentato al benessere della persona, meritevole di denuncia alla Corte di Giustizia Europea. Rinunciare a passare tutte le sere sdraiati davanti alla televisione per dedicarne almeno una alla settimana a leggere un libro o uscire di casa per assistere a un concerto, a uno spettacolo non banale, a una conferenza, è considerata attività che solo pochi individui privilegiati, oltretutto piuttosto snob, possono permettersi.

Perché fare la fatica di cercare di cambiare la propria vita, quando è così confortevole affidarsi alle cure di persone esperte e competenti, che chiedono in cambio soltanto di rinunciare alla nostra dignità e alla nostra responsabilità umana, per rifugiarci nella condizione di “pazienti”?

La fatica non è mai vista nel suo rovescio positivo, e cioè come impegno, ma solo come sofferenza. Che la fatica sia tale, da un certo punto di vista, è innegabile, ma solo quando essa non ha alcuno scopo, ci è imposta da altri contro la nostra volontà, non produce nulla, non serve a realizzare alcunché, oppure è evidentemente esagerata e sproporzionata rispetto al risultato che consente di ottenere.

Ma nella maggior parte dei casi, la fatica non è nient’altro che una delle componenti dell’azione umana: la fatica è una componente positiva del comportamento umano perché, entro ovvi limiti di buon senso, è lo strumento che ci consente di verificare che quello che stiamo facendo vale la pena di essere fatto. Occorre però concepire la fatica, non certo come sofferenza fine a se stessa, ma come piacere fine a se stesso, anche quando essa debba essere uno strumento utile per migliorare la qualità della vita.

Non si tratta di diventare tutti masochisti, si tratta di riconoscere l’aspetto positivo che esiste nella fatica, fisica o intellettuale che sia, quando questa diventa parte costitutiva e imprescindibile di un progetto teso al miglioramento della qualità della vita. Siamo tutti consapevoli dell’esistenza e dell’azione del principio di polarità, amiamo tutti citare la dialettica tra yin e yang ma, alla prova dei fatti, pretendiamo di avere dalla vita soltanto gli aspetti positivi.

Per questo motivo vorrei concludere con un interrogativo: possibile che nessuno si chieda a che cosa mai serviranno gli aspetti negativi, dal momento che esistono e che nulla esiste senza uno scopo?

"E’ solo essendo pienamente coinvolti in ogni aspetto della nostra vita, buono e cattivo, che noi troviamo la felicità, non provando a cercarla direttamente." J.S Mill.

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